Disabilità, facciamo chiarezza

Disabilità, facciamo chiarezza

17 Gennaio 2018 Redazione 0

Un articolo di Antonella Ignoto (nella foto), coordinatore dei dirigenti medici della Fondazione ODA e direttore medico responsabile della Cdr  “Maria SS del Carmelo”.

Di cosa parliamo quando ci riferiamo alla disabilità?  Perchè, all’alba del 2018, è ancora necessario interrogarsi sulla disabilità? Disabile, invalido, handicappato, non autosufficiente, diversamente abile: sono le più frequenti definizioni che spesso con imbarazzo sentiamo e rivolgiamo alle persone con un deficit motorio o cognitivo o sensoriale. Ma davvero la disabilità si misura con la malattia da cui è affetto il soggetto? È costretto alla disabilità un soggetto con una grave paraparesi?  Dietro la terminologia e il linguaggio, assai poco coerenti nel tempo e nei contesti, si possono riconoscere preconcetti ormai obsoleti cui siamo abituati e che invece dobbiamo  abbandonare. L’ONU(con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità,approvata il 13 dicembre 2006; in Italia è stata ratificata con la Legge 3 marzo 2009, n. 18)ci aiuta a capire meglio cosa significa disabilità. Le definizioni di disabilità e di persona con disabilità (articolo 1, comma 2), sono l’espressione dei principi fondamentali su cui si basa la Convenzione ONU. Derivano pertanto dall’affermazione dei diritti umani delle persone, del diritto all’inclusione ed alla partecipazione sociale in condizioni di pari opportunità rispetto agli altri. Vi si aggiunga il conseguente divieto ad ogni forma di discriminazione e di segregazione e da ultimo si sottolineino tutti gli intenti legati all’abilitazione, alla libertà di scelta, alla ricerca di accomodamenti ragionevoli in caso di palesi condizioni di discriminazione.In sintesi: le persone vanno messe nella condizione di vivere, scegliere, partecipare, rimuovendo gli ostacoli che impediscono loro di farlo e promuovendo soluzioni che ne consentano la partecipazione al pari degli altri. È in questo contesto logico, prima ancora che etico, che ci si muove quando si definisce la disabilità come«un concetto in evoluzione e come risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». La disabilità non è un concetto imperituro che possa essere fotografato con un’immagine che non ha scadenza. E’ invece il risultato di un’interazione e può modificarsi uno degli elementi di tale “scambio”, la disabilità che conosciamo oggi potrebbe essere molto diversa da quella di domani (peculiarità diverse, nuove forme di esclusione, nuove forme di partecipazione). Questa rimarcata evoluzione non ha solo un significato storico e sociologico, cioè riguardante l’evoluzione di una intera società, ma è valida anche rispetto ad ogni persona le cui condizioni possono modificarsi. La persona può seguire percorsi di capacitazione o involversi, suo malgrado, in situazioni segreganti o discriminanti a causa di nuove barriere o ulteriori ostacoli. La disabilità cambia assieme all’interazione che la genera. Riconoscere e saper rilevare questa dinamicità permette anche di valutare l’efficacia delle politiche generali e dei supporti alle persone. L’interazione è fra le persone che hanno una menomazione e le barriere che queste incontrano. Le barriere sono comportamentali: atteggiamenti, luoghi comuni, pregiudizi, prassi, omissioni. Le barriere sono ambientali: luoghi, servizi, prestazioni inaccessibili; assenza di progettazione per tutti; assenza di politiche inclusive. Non esiste disabilità senza barriere. Senza barriere e ostacoli ci sono “solo” persone con menomazione. Inoltre, questa interazione negativa assume significato perché impedisce alle persone con menomazione«la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».Quindi risultano incluse nelle interazioni negative anche le discriminazioni, cioè i trattamenti differenziati (diseguali) senza giustificazione. In altre parole viene riconosciuto che la rimozione o riduzione della disabilità è una responsabilità (e dovere) istituzionale e della società nel suo complesso. Infatti le barriere, gli ostacoli e le condizioni di discriminazione sono creati in gran parte dalla società che si è dimenticata che esistono persone che si muovono su sedia a rotelle, si orientano con un cane guida, comunicano senza l’uso della voce, si relazionano a cuore aperto. L’articolo 5 della Convenzione ONU impone agli Stati di proibire qualsiasi discriminazione e, nel caso venga riconosciuta da un tribunale, obbliga gli stessi Stati a mettere in atto un accomodamento ragionevole che rimuova la condizione di discriminazione e diseguaglianza, ne impedisca il ripetersi e, nel caso, risarcisca il discriminato dai danni materiali e morali subiti. Tenendo conto «dell’universalità, l’indivisibilità, l’interdipendenza e interrelazione»di tutti i diritti umani, ogni volta che si impedisce il pieno godimento di uno di questi diritti, vengono ad essere colpiti in una catena negativa anche tutti gli altri diritti. Qui sta tutto il peso specifico della Convenzione: rendere un diritto effettivo di tutti e in tutti gli ambiti della vita ciò che oggi viene faticosamente riconosciuto solo come legittima aspirazione di qualcuno e solo in alcuni ambiti della vita. Dello stesso tenore è la definizione di persona con disabilità:«Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». Prima sintesi: per rendere la persona con menomazione una persona con disabilità è necessario che una serie di barriere ostacolino la sua piena ed effettiva partecipazione. A generare la disabilità, quindi, non è solo la menomazione, maanche gli ostacoli che la persona incontra, le scelte e i percorsi che può o meno assumere durante la sua vita a causa di barriere che altri hanno posto. Si tratta di una definizione profondamente “rivoluzionaria” rispetto a quella assunta dalla normativa italiana (pre)vigente alla Convenzione: viene riaffermata la responsabilità di fondo delle politiche di ciascun Paese e dei servizi che questo attiva e mantiene per favorire la piena inclusione e le pari opportunità senza discriminazioni basate sula disabilità. Inoltre, per l’accesso al sistema di servizi e prestazioni, in Italia non è quasi mai sufficiente la verbalizzazione di uno “stato invalidante” ma sono richiesti anche altri requisiti: ora di età, ora di limiti reddituali, ora di altri requisiti soggettivi o materiali. All’accertamento sanitario si aggiunge, quindi, anche quello più schiettamente amministrativo. Ultimo ma non ultimo: esiste in Italia una proliferazione di momenti accertativi derivante proprio da una frammentaria molteplicità di definizioni, criteri, eccezioni che mutano a seconda dei benefici attivabili, anziché viceversa, mentre è ancora estremamente debole e confinata nell’ambito della sperimentazione la valutazione connessa alla presa in carico, alla programmazione individualizzata dei servizi, ai sostegni alla piena partecipazione sociale. Ma dopo l’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità questa impostazione è ancora sostenibile? Non possiamo più ricorrere nel nostro linguaggio a termini come handicappato, spastico, disabile o peggio ancora diversamente abile. Oggi la definizione da usare è ‘persona con disabilità’ in cui la misura della disabilità non è la patologia di cui è affetta la persona ma è data dalla quantità e qualità di servizi che le persone e il territorio gli offrono per superare il proprio deficit. Come in una bilancia tra servizi e disabilità. Per fare un esempio semplice: la persona con disabilità sarà più disabile fisico psichico e sensoriale in un contesto che non lo tiene in considerazione con le barriere architettoniche, i servizi riabilitativi di cura medica e di supporto psicologico e sociale. Invece egli potrà vivere in piena autonomia senza sentirsi poi così tanto disabile se potrà essere curato e se potrà muoversi nel territorio e lavorare e fare attività sportive come un comune individuo. Ecco, il progresso scientifico e politico-sociale deve portare la persona con disabilità a trovare tutti i presidi e i supporti umani e strumentali tali da poter diventare una persona comune.

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